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Il formidabile “instant book” di Peter Gomez, Marco Lillo e Marco Travaglio incendia l’estate 2008

 

 

IL BAVAGLIO”, ARMA LETALE DELLA “MEDIOCRAZIA”

 

un libro contro le nuove leggi-vergogna e per far conoscere i nomi, le carte, gli intrighi, i silenzi, gli inciuci

 che la Casta vuole ancora nascondere ai cittadini. Mentre il Regime è in agguato. E prima che sia troppo tardi.

 

 

 

Siamo ben oltre le leggi ad personam e l’assedio alla libera informazione.

Siamo all’anno zero della legalità, al deserto dei diritti.

E’in atto un tale meccanismo di assuefazione che neanche ce ne accorgiamo.

Il diritto all’informazione non è dei giornalisti ma dei cittadini.

 

Antonio Ingroia

Magistrato

Pm antimafia a Palermo

 

 

Come usava sostenere la buonanima di Vittorio Emanuele III, “un sigaro toscano e una croce di cavaliere non si nega a nessuno”. Ok, ma sulle croci di cavaliere, almeno quelle nostrane, ci sarebbe, vivaddio, qualcosa da mettere in chiaro, e con forza, se è vero, come purtroppo lo è, che appare tristemente inossidabile, ancorché di targa risorgimentale, quella taglientissima rimostranza in versi che Felice Cavallotti, prendendosela con il siciliano Francesco Crispi (ci facciamo sempre conoscere: vedasi alla voce “lodi”, ovverosia a qualcosa di ben diverso dai complimenti, se non per quelli rivolti, “de facto”, a chi viene posto nell’esultante condizione di poter finalmente farsela franca: autori, nel tempo – ed in poco tempo: fra ieri ed oggi – i conterranei Cirami, Schifani ed Alfano), inappellabilmente accusato d’aver insignito, e pure per soldi (figurarsi: le buone abitudini non si devono perdere mai) nientepopodimeno che l’ambitissimo Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro al faccendiere d’epoca Cornelio Hertz, inopinatamente tramutato in “cugino” di Sua Maestà, rivolse allo statista riberese: “In tempi men leggiadri e più feroci / i ladri si appendevano alle croci / In tempi men feroci e più leggiadri / si appendono le croci in petto ai ladri”.

Un capolavoro degno del più celebre Pasquino, questo dardeggiare d’amarezza e sarcasmo, cui m’è venuto subito di rapportarmi già a leggere la copertina di un libro, il “Bavaglio” (per la precisione, ne riporto integralmente il titolo: “Bloccare i processi, cancellare l’informazione, difendersi con l’impunità. Ecco perché Berlusconi sta preparando il bavaglio”) che la Casa Editrice “Chiarelettere”, con la consueta, cortese ed encomiabile puntualità, m’ha inviato proprio in questi giorni, i quali, come dalle note in quarta di copertina, passeranno (o, meglio, sono già passati: prosit ai Palazzi) dalla cronaca (repellente) alla storia (con la “s” minuscola). Li chiameranno, leggo, “i giorni del bavaglio”. I giorni in cui al Senato si votava per interrompere il processo dell’attuale “premier” (Cavaliere anche lui: anzi, “il” Cavaliere per definizione, visto che “per eccellenza” o “per antonomasia” sembrerebbe veramente troppo), accusato dal Tribunale di Milano per la corruzione del testimone Mills, e, per farlo, si minacciava di fermarne altri centomila, in via d'urgenza e  persino, roba da vergognarsi – ma quando mai le facce di bronzo sono state capaci d’un pur minimo corruccia mento in tal senso? –  in nome della sicurezza. I giorni in cui la destra italiana, con nessuno scandalo d’una sinistra litigiosa, imbelle e con le mani in pasta anch’essa, ed anzi d'accordo con la “magna pars” (anche nel senso del “magnare”) della stessa, ha fatto transitare come un treno che ha sbriciolato ogni residua ma impalpabile resistenza (ricordate ancora quel vecchio monito di Francesco Saverio Borrelli – “resistere, resistere, resistere” – implacabilmente tacitato da corali di connivenza?) il nuovo lodo Maccanico-Schifani-Alfano per garantire l'immunità (o l’impunità:  ed il titolo del libro ha fatto bene ad usare, senza mezzi termini e / o mezzucci d’edulcorante, eufemistica ipocrisia,  il termine giusto al posto giusto ed al momento giusto) alle più alte cariche dello stato (lo scrivo anch’io con la “s” minuscola, visto che fa parte di quella squallida “storia” di cui sopra). L’immunità / impunità dell’attuale “premier” in particolare che, adesso, protetto da questa corazza, impenetrabile ed impermeabile, invece di limitarsi a tirare in silenzio un sospirone di sollievo ed a ringraziare in silenzio Dio (il suo, non il mio), s’è potuto pure permettere, “dulcis in fundo”, una dichiarazione che è il massimo dell’arroganza: “E’ un provvedimento assolutamente giusto….Ora non verrò più perseguitato”. I giorni in cui la destra italiana, senza troppo scandalo della sinistra, anzi, e come sopra, d'accordo, preparava le nuove leggi per vietare ai magistrati e agli investigatori l'uso delle intercettazioni telefoniche nell’ambito di un'allarmante sequenza di reati,  per proibire in perpetuo la loro pubblicazione e quella di ogni altro atto giudiziario, anche in riassunto, per deliberare il carcere (ma pare si possa scongiurare tale funesta eventualità)contro i giornalisti “disobbedienti” ed ingenti multe contro gli editori colpevoli d’avallare tale “diktat”. In ultima analisi, i  giorni nei quali, in nome della predetta, interessata e mendace “sicurezza”, sospendere, di diritto e di fatto, la libertà di stampa.
Ed ecco allora “Il bavaglio” (“Chiarelettere”, collana “principio attivo”, giugno 2008, pagine 240, euro 12,  in libreria dal 21 luglio)  libro contro le nuove leggi-vergogna e per far conoscere tutte le carte che lacasta”, di destra, di centro e di sinistra (sinistra?) vuole nascondere ai cittadini,  prima che sia troppo tardi. Autori, Peter Gomez, scrittore ed inviato del settimanale “L’Espresso”, Marco Lillo, pure lui scrittore e giornalista dello stesso periodico, e Marco Travaglio, scrittore e giornalista che non ha bisogno di presentazioni (fra i suoi ultimi lavori pubblicati da “Chiarelettere” e puntualmente recensiti da chi scrive, “Mani sporche”, con Gianni Barbacetto e Peter Gomez, e “Se li conosci li eviti”, sempre con Gomez); ed una magnifica introduzione di Pino Corrias, anche lui rinomato scrittore e giornalista “d’assalto”,  icasticamente intitolata “L’estate del Caimano” e preceduta da una citazione di Franco Cordero (“La Repubblica”, 19 giugno 2008) che si riferisce, più che ovvio, all’ormai celeberrimo “Unto del Signore” per (auto) definizione e che, per altrettanta, puntuale esaustività, si commenta da sola: “Gli sta a pennello l’aggettivo tedesco folgerichtig, nel senso sub-razionale: ha dei riflessi costanti (finto sorriso, auto compianto, barzelletta, morso, digestione); non tollera le vie mediane; sceglie d’istinto la più corta, come il caimano quando punta la preda”.

Però anch’io, sebbene solo a volte e con scaturigini tutt’altro che gratificanti rispetto ai Suoi puntuali ricavi in termini di soldi & potere, amo affidarmi all’istinto; ed è stato proprio istintivamente che, soppesando ancora il titolo di questo volume (che diverrà senz’altro, e meritatamente, un “best-seller”), mi sono subito fiondato su uno dei miei vecchi amori, l’etimologia; ed in questo “laboratorio alchemico” ho cercato – e trovato – qualcosa in più su questo “bavaglio” che, come tutti i termini d’uso comune, usati cioè per abitudine, offre solo superficialmente le sue denotazioni, connotazioni e valenze d’ordine significativo.

Ottorino Pianigiani, “Vocabolario etimologico”, un secolo e un anno, ma tutt’oggi insuperato, Cassazione.

“Bavaglio”: “Quel pezzo di pannolino che si mette al collo ai bambini per guardare i panni dalla bava” (ok, letterale, ma è il regno delle metafore che m’interessa). Continuo e trovo: “Quel fazzoletto con nodo che gli scherani mettono in bocca a coloro che assaltano, perché non possano gridare o parlare”. Vado, allora, ad “imbavagliare”. “Mettere il bavaglio…cioè… Coprire altrui il viso con un panno, acciocchè non veda, né parli e non sia veduto”. Ci siamo, più “chiare lettere” di così… Ma è d’obbligo, a questo punto, andar per “scherani”, ad attualizzarne la figura. E quindi: “Scherano”, “…Vuolsi congiunto (insieme a Sgherro) al lat. Sicarius, assassino” (…) ma anche “Ribaldo e Masnadiere” (mi sovviene una delle tante “gags” di “Striscia la notizia”, quella sul “Cavaliere Mascarato” laddove, nella lingua siciliana, “mascaràtu” è figura che non si riferisce al vestiario, ergo, nello specifico, all’uso di un domino o capo equivalente più o meno  d’eleganza“rétro”, ma equivale ad “avìri ‘a màscara” – Pirandello docet – e non è proprio roba da cabaret: gliel’avrà mai detto, al Cav., qualcuno delle nostre parti, e magari di quel già citato trio lodo produttivo?).

(Continuo la parentesi: proprio per caso, mentre chiudevo il predetto vocabolario, mi sono andati gli occhi su “Berlusco”, ovverosia “Due volte losco” – da “Bis” e “Losco” : ed anche qui il termine si commenta da solo, e “Schifanòia”, ovverosia “Voce composta, che vale Pigro, Poltrone, Scansafatica: prop. Che schiva anche la noia”; ma se penso a qualcuno in particolare, mi sembra che abbia costantemente dimostrato il contrario, soprattutto in difesa di qualcun altro; e mi fermo qui, prima che il qualcuno numero uno vada in ira funesta e magari dica anche a me quella frase che pare gli stia molto a cuore, “Lei non sa chi sono io” o giù di lì).

Ma c’è poco da scherzare, purtroppo; e si ride per non piangere, così come usiamo dire qui in Sicilia: e basta leggere il volume, in cui ogni foglio sollecita riflessione ed indignazione al tempo, per rendersene conto.

Sommario eloquentissimo: “Tre leggi vergogna, una Costituzione da abolire”; “Berlusconi & Mills, il processo da bloccare”; “Berlusconi & Saccà, le telefonate da occultare” (e che, invece, sono riportate “apertis verbis”, a sfidare lodi & “laudatores”, liste di proscrizione e fedine penali: d’indicibile squallore – i riassunti non servono: bisogna leggere per soppesare “in diretta” – il “Pronto Silvio, pronto Agostino” dell’Appendice che conclude il volume con ulteriori due capitoli: “Le intercettazioni nel mondo”, e l’Italia ormai è, ormai, al “peggio del peggio”, e “Il lodo Maccanico – Schifani e la bocciatura della Consulta”.

Ovviamente un “instant book” ha dei tempi d’uscita e non può autoaggiornarsi, per cui non ha (e speriamo si provveda nelle prossime edizioni) un doveroso indice dei nomi e s’è fermato ai “giorni di giugno”; ma sono più che sicuro che gli Autori usciranno, ed in breve tempo, anche con un doveroso testo a completamento, concernente questi “giorni di luglio” senz’altro fra i peggiori di tutte e tre le Repubbliche, poiché – ed è espressamente riportato nel testo – “In tempi di menzogna universale, dire la verità diventa un atto rivoluzionario” (è George Orwell; ma vale la pena rammentare le altre citazioni riportate nella stessa pagina: “Nel paese della bugia, la verità è una malattia”, di Gianni Rodari, “C’è un solo modo per vedere realizzati i propri sogni: svegliarsi”, firmata da Paul Valéry, e un detto popolare catalano che, da solo, li vale tutti: “Ci pisciano addosso e ci dicono che sta piovendo”); e “Il bavaglio” la dice a “chiare lettere” questa verità che diviene atto rivoluzionario nella misura in cui è verità oggettiva, ripresa dai fatti e fortificata da un solidissimo edificio di supporti documentari e di riferimenti giuridici giammai “trattati” al silenziatore.

Vale la pena,in tal senso, riprendere e condividere “in toto” quanto scritto, in proposito, dagli Autori, quando sottolineano che “il bavaglio” potrà raggiungere il suo scopo “se i giornalisti si lasceranno imbavagliare senza batter ciglio. I tre autori di questo libro – insieme ad altri colleghi che hanno aderito alla campagna ‘Arrestateci tutti’ (sul blog www.voglioscendere.it) – annunciano fin d’ora che continueranno ad informare i lettori senza tacere nulla di quel che sanno. Continueremo a pubblicare, anche testualmente, nel riassunto, nel contenuto o come ci pare giusto, gli atti d’indagine e le intercettazioni che riusciremo a procurarci per informare i cittadini. Faremo disobbedienza civile a questa legge illiberale e liberticida. A costo di finire in galera, di pagare multe, di essere licenziati. Al primo processo che subiremo, chiederemo al giudice di eccepire dinanzi alla Consulta e alla Corte europea la illegittimità della nuova legge rispetto all’articolo 21 della Costituzione della Repubblica italiana (“…la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”) e all’articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali (“Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche…”, con possibili restrizioni solo in caso di notizie ‘riservate’ o dannose per la sicurezza e la reputazione”).

E’una dichiarazione d’intenti lanciata all’ “agghiacciante realtà” di un Paese inquinato da lodatori, “laudatores”, cacciaballe, protettori, “custodi” e “turiferari” (primi fra tutti, ovviamente, quelli citati con nomi e cognomi nel libro e, detto fra noi,  per ragioni territoriali, proprio noi agrigentini, per interposta persona, ci facciamo una figura “di quelle che sappiamo noi”); una sorta d’ “imperativo categorico” che dovrebbe indurre tutti quelli che sentono (o credono, o almeno ancora sperano) d’essere liberi cittadini e, in specie, liberi operatori dell’informazione, poiché, tanto per estrapolare una delle numerose e spinose vergogne presenti nel volume, questa storia della censura alle intercettazioni telefoniche è proprio una porcata, dal momento che, fino ad oggi, almeno il 90% dei fatti & fattacci “intercettati” s’è dimostrato vero, reale e documentabile, malgrado le solite stracciate di vesti da parte – “bipartisan” – di chi è stato beccato in cornetta e che, quindi, deve rispondere alla Giustizia e non può, non deve essere, invece, paradossalmente “tutelato” proprio da qualche lampante e provvidenziale “escamotage” contrabbandato per provvedimento legislativo ma emanato, anche questa volta, in nome di una Legge che non è uguale per tutti dal momento che s’inginocchia al Potere.

Basta, quindi, con “il gioco delle parti” (torna a sovvenirmi Pirandello, uno che aveva capito tutto e che, quindi, era perfettamente allineato con il George Orwell di cui sopra); basta con le geremiadi dei mascalzoni di destra, di centro e di sinistra che, anche quando sono colti in flagrante e non solo allorché si ritrovano sui media a non vergognarsi di ciò che è uscito dalle loro bocche, se ne escono tutti con la solita frase di circostanza “ho piena fiducia nella Giustizia” (quale? Quella dei lodi? Quella dei bavagli?); basta con i lodi personali definiti “scudo della democrazia”; basta con l’arroganza che porta persino a chiedere un risarcimento danni per l’immagine, le spese legali e quant’altro, e pure con tante scuse dal popolo bue (sono le ultime “perle” che colgo dagli echi di un tg mentre finisco, alle 20 di oggi, 24 luglio 2008, di scrivere questa recensione); basta con la logica d’interesse che pretende di cambiare le cose solo cambiando le persone e non le mentalità, le “lobbies”, le alleanze trasversali di “casta” rispetto agli schieramenti “di facciata” (altra “perla” dal tg: l’applauso “bipartisan”, quindi pure da destra, di un esponente di sinistra – sinistra? – che ancora non pare aver chiarito varie intercettazioni e dichiarazioni: una roba allucinante; oppure la destra avrà applaudito la commedia e non l’attore, ovvero non lui ma la propria legge killer delle intercettazioni tutt’altro che ostacolata dalla sinistra, sempre che ci sia ancora dietro il “gioco delle parti”?).

In altre parole, la casta deve essere portata nella condizione di smetterla con l’arroganza, la privilegiata vocazione a delinquere ed il paraculismo policromo, sempre, comunque e dovunque “bipartisan” (altro che qualunquismo, parlano fatti, personaggi e reati); e mi sovviene, in proposito, anche una di quelle frasi, sconcertanti ma, in ultima analisi, veritiere, che Bettino Craxi, dinanzi alla “scoperta” di Tangentopoli da parte della Magistratura e ad un’evidenza tale e tanta di latrocini da non poter più minimizzarla buttando la croce (si fa per dire) addosso a qualche isolato “mariuolo” dinanzi ad interi reggimenti di “onesti”, non potè fare a meno di pronunciare dinanzi ad una Camera intenzionata, strumentalmente, a colpevolizzare il solo PSI inopinatamente finito nell’occhio del ciclone, mentre quasi tutti i partiti (escluse le solite minime minoranze “in fuorigioco” di idealisti ed onesti senza virgolette) vantavano dovizie di scheletri negli armadi, sia dentro che fuori i Palazzi ma continuavano a fare il gioco delle parti: “Non credo che ci sia nessuno in quest’aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.

Per la cronaca, tutti rimasero seduti. E senza giurare.

Niente o quasi è cambiato, purtroppo, da quei giorni che dovevano essere il preludio d’una rinascita della Nazione ma furono semplicemente la sosta ai box di un ricambio di persone ma non di mentalità, innescando, anzi, un aggravamento inarrestabile di situazioni destinate a far scandalizzare tutto il mondo ma non “l’italico suolo”, innescando anche, per seguire un’impeccabile definizione di Curzio Maltese, il trionfo della “mediocrazia”, “governo da parte delle televisioni” ma, al tempo stesso, “trionfo della mediocrità”.

Ed è proprio “il bavaglio” l’arma letale di questa “mediocrazia”. Forse noi addetti ai lavori ce ne eravamo già accorti da qualche tempo, ma l’opinione pubblica, nonostante tutto e malgrado i “soliti noti”, non ci aveva fatto caso più di tanto, come inesorabilmente colpita da una sorta di “sindrome da garrota” che, giorno dopo giorno, prosegue il suo inarrestabile processo di strangolamento, ma piano piano, senza fretta, distraendo ed insabbiando, depistando e destabilizzando, tacendo ed urlando, fra lacrimazioni e barzellette, fra  mutande d’acciaio e guanti di velluto, fra gazzarre grandguignolesche e malcelate storie di “pasionarie” e “cocottes”. Leggendo questo volume, invece, ci accorgeremo di questo bavaglio sempre più vicino alle labbra ed agli occhi, di questo filo d’acciaio rivestito di seta sempre più stretto sul nostro collo, di questo frastuono mediatico / mediocratico puntato ad altezza d’uomo per ovattare sgradevoli sonorità e per azzerare anche la nostra voce fra gli echi, sempre più flebili, di una democrazia, quella vera, ogni giorno umiliata ed offesa, e che dobbiamo farci riconsegnare adesso, senza esitazioni, senza immeritati rimpianti, da questo nuovo Regime (che ha già materialmente posto in opera le sue fondamenta in tutta la Nazione) e da tutti i suoi policromi mercenari ora riuniti nell’unico colore della Casta. Subito, adesso. Prima che sia troppo tardi.

 

Nuccio Mula

 

 
Un libro coraggioso e sconvolgente sugli “affaires” 
di denaro e di sangue fra mafia e potere

 

“Il ritorno del Principe”

Autori, Roberto Scarpinato, giudice “in prima linea” 
e Saverio Lodato, storico giornalista antimafia

 

Il volume, edito da “Chiarelettere” 
ed in libreria dal 27 giugno,

sarà presentato mercoledì 9 luglio, alle ore 21, a Palermo

nell’atrio della Biblioteca Comunale di Casa Professa

alla presenza di 
Gian Carlo Caselli, David Lane e Marco Travaglio

 

 


Questo è un libro di storie «oscene» che nel loro intrecciarsi sui terreni della mafia, della corruzione e dello stragismo possono offrire una chiave per comprendere pagine importanti del passato e per decifrare il presente e il futuro… o forse la mancanza di futuro del Paese.

Roberto Scarpinato
 

Questo non vuole essere un libro sulla mafia.

Non è un libro sulle stragi. Non è un libro sulla corruzione. Semmai è la spietata radiografia che mostra la faccia scura e nascosta, la storia inconfessabile, di un Giano bifronte: lo Stato italiano.
Si sarebbe fatto ancora una volta il gioco del Principe rinunciando finalmente a una visione panoramica, pur nei limiti di un singolo libro, di mafia, stragi e corruzione, messe finalmente tutte insieme. È proprio in questo intreccio la chiave di volta per capire ciò che altrimenti

resterebbe incomprensibile, indecifrabile, inspiegabile.
C’è un solo filo da scoprire, se si vuole dipanare l’intera matassa
.

Saverio Lodato

“Il potere non è nel Consiglio comunale di Palermo. Il potere non è nel Parlamento della Repubblica. Il potere è sempre altrove. Lo stato per me è la Costituzione e la Costituzione non esiste più.”
Leonardo Sciascia

 

Non è vero che la mafia è quella che si vede in tv, e che i corrotti e i criminali sono una malattia della nostra società. Qui, in Italia, la corruzione e la mafia sembrano essere costitutivi del potere, a parte poche eccezioni (la Costituente, Mani pulite, il maxiprocesso a Cosa nostra).

Ricordate il Principe di Machiavelli? In politica qualsiasi mezzo è lecito.

C’è un braccio armato (anche le stragi sono utili alla politica del Principe), ci sono i volti impresentabili di Riina, Provenzano, Lo Piccolo, e poi c’è la borghesia mafiosa e presentabile che frequenta i salotti buoni e riesce a piazzare i suoi uomini in Parlamento. Ma il potere è lo stesso, la mano è la stessa.

Il libro è questo: racconta il “fuori scena” del potere, quello che non si vede e non è mai stato raccontato ma che decide, fa politica e piega le leggi ai propri interessi.

Ci avviamo verso una democrazia mafiosa? Forse: ma gli italiani possono reagire, è già successo.

Così come ha scritto, nei giorni scorsi, Curzio Maltese su “Repubblica”, Roberto Scarpinato, magistrato siciliano ormai estromesso dal pool antimafia, è stato uno degli allievi più acuti di Giovanni Falcone.

E adesso, nel suo “libro intervista” con un grande cronista di mafia, Saverio Lodato, Scarpinato parte dalla lezione del suo maestro per leggere tutto quanto è accaduto nel sistema di potere italiano dopo le stragi di Capaci e via D' Amelio, ma anche prima.

“Il ritorno del Principe” (Chiarelettere Editore, pagg. 368, 2008, euro 15,60), riguarda tratti “oscenamente naturali” del potere in Italia. In primis, l'uso della violenza da parte delle classi dirigenti per dirimere questioni politiche.

Un uso teorizzato per primo da Machiavelli allo scopo di unificare il Paese, com' è stato del resto in quasi tutti i processi di nascita degli stati nazionali. Ma che in Italia, annota acutamente Maltese, è diventato «il» metodo eterno di gestione della cosa pubblica.

Con brevi periodi di rottura provocati da élites culturali, come il liberalismo risorgimentale e l' Assemblea Costituente, la storia del potere in Italia è storia di mafia, di una violenza e di un' illegalità iscritte nel genoma delle classi dirigenti, declinate nelle pratiche parallele della corruzione di massa e dello stragismo di Stato.

Quello di Scarpinato non è un semplice, ipotizzato «teorema» giudiziario, ma il frutto dell' esperienza di una vita da magistrato.

Le sue teorie affondano le radici nella carne e nel sangue di decine di inchieste, centinaia di interrogatori, migliaia di ore d' intercettazioni, decenni trascorsi a studiare il grande laboratorio politico criminale della Sicilia.

I racconti “in presa diretta” sulla borghesia mafiosa di Palermo, sul Guttadauro rispettabile chirurgo di giorno e feroce capo mandamento la sera, oppure sui rapporti internazionali delle mafie nell' epoca della globalizzazione, dipingono affreschi potenti di una realtà cruciale e sconosciuta all' opinione pubblica.

Quando Scarpinato lascia parlare i fatti, come faceva Falcone, il quadro si chiarisce nella sua devastante verità.

La mafia è veloce nel capire la storia, con la S maiuscola, purtroppo in anticipo sull' antimafia.

Dopo l' ingresso dell'Italia in Maastricht, i boss e i comandanti in capo sono i primi a capire che il freno all' espansione del debito pubblico stravolgerà il mercato degli appalti, e si buttano anima e corpo sui due nuovi affari. La sanità pubblica, che continua a spendere e spesso a sprecare novanta miliardi di euro all' anno, con una crescente quota di regali clientelari alla sanità privata.

E i fondi europei, che altrove, come in Spagna e nell' ingrata Irlanda, sono serviti a porre le basi di un boom economico, mentre da noi si sono tradotti in un boom di appalti criminali, senza alcuno sviluppo.

Le conclusioni di Scarpinato sono all' apparenza di totale disperazione. Con qualche lievissimo tocco di ottimismo sullo sfondo, più che altro riferito al vincolo esterno dell' Europa. Quasi l' Italia da sola non sia geneticamente capace di ribellarsi alla malavita delle classi dirigenti.

In realtà, obietta giustamente Maltese, è già accaduto in passato.

Le stragi di Falcone e Borsellino nell' estate del ' 92 hanno evocato, infatti, e per la prima volta, forse, nella storia d' Italia, la nascita di un' opinione pubblica democratica in grado di voltare pagina.

Senza la ribellione morale contro quelle stragi e la loro coda di bombe del ' 93, sottolinea, infine, Maltese, non sarebbero stati possibili lo sviluppo di Mani Pulite, la scomparsa dei partiti della prima Repubblica, la fine della lunga stagione stragista cominciata nel dopoguerra a Portella della Ginestra e proseguita con una scia di sangue da Piazza Fontana in poi.

Per quindici anni, quindi, la reazione dell' opinione pubblica a Capaci e via D' Amelio ha immesso nella fragile democrazia italiana gli anticorpi necessari a resistere al ritorno del Principe, ovvero all' instaurarsi di un regime criminale legalizzato e anzi costituzionalizzato: ed è proprio questo – prima che sia troppo tardi – il momento di reagire e di concretizzare una resistenza che deve e può essere vincente, anche da subito.  

Interessantissimo e sconvolgente, allora, questo volume / manuale di resistenza che, già dai primi giorni in libreria (è uscito a fine giugno) s’è rivelato un vero e proprio “best-seller” dall’alta potenzialità di coagulo in tema di atteggiamenti e comportamenti antimafia che non siano, come fin troppo spesso accade, soltanto retorica e tautologia di circostanza o “specchio per le allodole” furbescamente maneggiato, a fini di depistaggio, dalle manovre tentacolari e destabilizzanti a cura dell’”intellighentzija” fra mafia e potere.

E di ciò è perfettamente convinta, nell’ambito di una rassegna stampa già gravida di consensi, anche Simonetta Fiori che, sempre su “Repubblica”, premette subito che, a leggerle così di fila, sono storie incredibili, mostruose, esagerate, storie di potenti corrotti e corruttori, manovratori di criminalità, tessitori occulti di trame mafiose; solo che, a raccontarle – e scusateci se è poco – non è il solito romanziere di febbrile fantasia, o un regista incline al grottesco sul genere di Sorrentino, ma Roberto Scarpinato, un magistrato vero, uno che racconta fatti e non chiacchiere, uno che si è occupato dei più noti processi di mafia, uno che, dall' 89 al '92, ha fatto parte insieme a Falcone e Borsellino del pool antimafia e che ora, da procuratore aggiunto a Palermo, dirige i dipartimenti di "Mafia-economia" e "Criminalità economica".

Ed infatti “Il ritorno del Principe”, titolo - si specifica in una pagina iniziale del volume - che non fa riferimento alle più recenti vicende dell' attualità politica (indovinate), è un libro pieno non di ipotesi fantapolitiche e fantagiudiziarie, ma di episodi, documenti, testimonianze anche inedite, ricavati da innumerevoli dibattimenti (quello a carico di Giulio Andreotti, ma anche i processi per i delitti di Salvo Lima e Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa);  e, talvolta, anche di risvolti o di dettagli apparentemente minimi, che però, ad analizzarli nel modo giusto, servono a capire. Come questo.

Nella stanza di Falcone, scrive Scarpinato, il Televideo era perennemente acceso. 24 ore su 24, sempre.

Talora, al comparire di una notizia apparentemente priva di connessione con il lavoro di giudice, Falcone si faceva pensoso. Era come se quell' evento - la quotazione in Borsa di una nuova società, la nomina di un ministro - andasse velocemente decodificato per comprenderne la cifra segreta. Capire come e dove il potere reale del paese si stava spostando equivaleva a capire dov' era necessario a propria volta spostarsi per non farsi prendere alle spalle o per non mettere i piedi su un terreno minato”.

Una lezione - aggiunge il magistrato - che poi gli è tornata preziosa. In un Paese che non ammette illusioni.

 

Nuccio Mula

 

 

 

 

Roberto Scarpinato è Procuratore aggiunto presso la Procura antimafia di Palermo, dove dirige il Dipartimento Mafia-economia. Ha lavorato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e si è occupato di alcuni dei più importanti processi di mafia degli ultimi anni. È stato uno dei pm nel processo Andreotti.

 

 

Saverio Lodato, giornalista e scrittore, lavora per “l’Unità”. Tra i suoi libri, per Mondadori: La mafia ha vinto (con Tommaso Buscetta); Ho ucciso Giovanni Falcone (con Giovanni Brusca). Per Rizzoli:  Trent'anni di mafia; Intoccabili (con Marco Travaglio); La linea della palma (con Andrea Camilleri).

 

 

 

Il ritorno del Principe 

di Saverio Lodato e Roberto Scarpinato

Chiarelettere editore, 2008

Collana Reverse

pp. 368, prezzo 15,60

 






 

“TOGHE ROTTE”

LA GIUSTIZIA RACCONTATA DA CHI, PER FARLA, 

DEVE FARE SEMPRE I CONTI CON IL POTERE

 

Un libro edito da “Chiarelettere” nel 2007 

ma che pare scritto proprio in questi giorni di “giustizia aggredita”

 

 

Che la Giustizia italiana sia, da tanti e troppi anni, in un caos quotidianamente aggredito ed eroso da metastasi di terzomondismo in irrefrenabile e fatale espandersi all’interno di ogni settore gestionale non è un segreto per nessuno, purtroppo: ed, in più, se ci consentite la battuta (si ride per non piangere, ovviamente), è proprio di queste settimane il Colpo di Grazia di Claudio Castelli, Direttore dell’organizzazione giudiziaria, al neo Ministro della Giustizia Angelino Alfano (catapultato, in men che non si dica, dagli allori alle grane: bella la bicicletta, ma adesso pedalare), sferrato attraverso un’impietosa relazione (che, per molti versi, è riduttivo definire allucinante) in tema di monitoraggio di una funzionalità giudiziaria che, ovunque nel Paese, allo stato dei fatti e senza immediate strategie di risoluzione a cura di una “task force” di specialisti, sembra avere ben poche alternative rispetto a quella, estrema e stremata, di alzare bandiera bianca nell’ambito di tutta l’ordinaria amministrazione e, quindi, non soltanto per la gestione di limitati picchi emergenziali.

Rischio di chiusura di molti sedi giudiziarie per inagibilità; processi infiniti ed interminabili; vagonate di carte; bizantinismi burocratici; udienze rimandate in termini di anni per oggettiva impossibilità di rapidi esami delle vertenze; tremendi vuoti d’organico (il caso più vistoso di carenza dei giudici, riporta la stampa, è proprio Agrigento: ne manca uno su due!); pochi soldi (o niente soldi: si arrangino come possono, magistrati e funzionari) per benzina, fotocopie, materiale di cancelleria e manutenzione di mezzi, strumenti e quant’altro; immobili vetusti, sovraffollati e carenti (pensate che, a Bari, uffici ed aule della Procura stanno in un palazzo privato dichiarato inagibile e confiscato dalla magistratura stessa!): questo e, purtroppo, molto altro ricostruisce il pauroso identikit della Giustizia italiana, la stessa che, tanto per incollarvi su un altro aspetto della cronaca più recente, se da un lato non trova gli spiccioli per fare il pieno o cambiare le gomme alle auto di servizio, oppure per comprare una risma di carta o una penna, paga lautamente (da 5.000 a 10.000 euro al mese) quei magistrati militari che, indignatissimi dal fatto di dover percepire lo stipendio senza far niente (così come i loro collaboratori: i tribunali militari pare non abbiano lavoro da svolgere), in una lettera aperta hanno chiesto d’essere utilizzati proficuamente invece di passare il tempo a studiare come passarlo, e pure senza obbligo di presenza sul posto di “lavoro” (quello stesso in cui i loro collaboratori non togati devono, invece, andare, ma dove non sanno come passare il tempo).

Indignazione ed onestà del tutto inutili, anche in questo caso specifico, visto che l’attuale governo, piuttosto che sopprimere gli ormai inutili tribunali militari, passare i giudici alla magistratura ordinaria e trasferirvi anche tutto l’altro personale (dando una risposta concreta alle emergenze dei problemi d’organico e di accumulo di arretrati in termini di udienze e di burocrazia) per tutta risposta ha spostato di sei mesi tale decisione, impedendo un risparmio, già nel 2008, di ben 848 milioni di euro; decisione stupida, demenziale, masochistica, antieconomica, che non ha uno straccio di senso: una vera e propria provocazione.

Come dar torto, quindi, per questo ed altri casi, all’ex sottosegretario Jole Santelli, allorchè lamenta “sprechi enormi, senza che si sia mai arrivati a una riorganizzazione generale della spesa”, constatando, al contempo, che, malgrado il numero dei magistrati italiani sia “superiore a quello degli altri Paesi europei”, “da noi la giustizia non funziona”? oppure al forzista Gaetano Pecorella, il quale, pur prendendo atto che “la giustizia è stata sacrificata nell’ultima finanziaria” e che, quindi, adesso “bisogna rivedere la destinazione dei fondi”, sottolinea comunque che “al di là delle grandi riforme è necessario pensare al quotidiano, perché se la giustizia non funziona l’economia è a rischio?” oppure, infine, a Giuseppe Consolo, in quota AN, il quale, “apertis verbis”, ha invitato a mandar via i magistrati dal Ministero (primi fra tutti, speriamo, quelli che si occupano dei loro colleghi militari di cui sopra), dichiarando, e molto opportunamente: “Non capisco perché non si affidi ai manager, che lo fanno di professione, la riorganizzazione della macchina giudiziaria?”.

Sprechi colossali e tagli incredibili, crolli strutturali e cedimenti istituzionali, incompetenza nella gestione delle risorse umane in servizio e colpevole miopia sull’improrogabile necessità d’incorporare nuove risorse umane, togate e non: questa la fotografia del malessere della Giustizia italiana, su cui la Presidente della Commissione Giustizia della Camera, on. Giulia Bongiorno, tra i legali più rinomati in campo internazionale, ha espresso un giudizio lapidario e severissimo: “non siamo più nella fase dell’emergenza giustizia, ma in quella (ancor più grave, n.d.r.) della presa d’atto dei danni cagionati dall’inefficienza del sistema”.

In attesa dei primi provvedimenti d’urgenza (poiché siamo già all’estrema unzione) e nella speranza che, ad esempio, la soppressione dei piccoli tribunali, nuovamente proposta dall’attuale sottosegretario Caliendo (l’ex ministro Mastella ci aveva già provato, ma fu subissato dalle proteste dei Comuni interessati), possa essere adeguatamente studiata prima d’essere colpita da acritico decisionismo (siamo sicuri che i problemi si superino semplicemente azzerando i luoghi fisici in cui tali problemi, lì veicolati per competenza, non sono stati né affrontati né risolti? O sarebbe meglio preservare i luoghi e fare in modo che vi si lavori sul serio?), una piccola grande proposta: andiamo in libreria e compriamo “Toghe rotte – la giustizia raccontata da chi la fa”, Chiarelettere Editrice, Milano, quattro edizioni nel 2007, 12 euro), a cura di Bruno Tinti, magistrato, giurista, già docente universitario (poi ha lasciato per dedicarsi completamente alla magistratura).

Tinti, Procuratore aggiunto presso la Procura di Torino, è uno di quelli che ha speso la propria vita professionale a inseguire truffatori, evasori, bancarottieri; un magistrato che, fra mille indagini e centomila delusioni, ha messo assieme la sua testimonianza e quella di altri colleghi, per dar voce al disagio di molta parte della magistratura (le “toghe” che si sono “rotte”, ovviamente: e non da ora), “ha trovato qualche collega che aveva avuto le stesse esperienze… e tutti insieme hanno pensato di spiegare ai cittadini perché le cose vanno così male nella giustizia italiana”, per cui “ne è uscito questo libretto”, chiude Tinti, ma con deprecabile eccesso di modestia, dal momento che il volume è tutto fuorché il solito, prevedibile libricino qualunquista su una delle tante cose che vanno male in Italia, pistolotto con cui lamentarsi e basta, tipo pensionati in panchina che muovono le labbra per invocare giustizia ma non muovono un passo né un dito.

Viste e considerate le situazioni che, da qualche tempo, campeggiano sulle prime pagine di giornali e tg, stigmatizzando anomalie vomitevoli o “innalzando lodi” (a Lui…) ed al suo “Angelo Custode”…di turno, a seconda delle posizioni politiche o di convenienza, il volume appare ed è, specialmente oggi, di un’impareggiabile attualità; e se il lettore può, al limite, anche sorridere fra i denti (e masticare amaro al tempo stesso) nello sfogliare le pagine dei numerosi episodi, fra indecente surrealtà e folklore da preture di periferia e da cineteca, riportati con incazzata dovizia di particolari dalle varie “toghe rotte” che, Tinti in testa, hanno confezionato la pubblicazione, allo stesso tempo non mancherà di sdegnarsi, e senza scoloriture d’aneddotica multimediale più o meno comica, dando uno sguardo ad un vero e proprio “corso accelerato di diritto e procedura penale” (“per capire perché la giustizia non funziona”), oppure al capitolo “Si fa ma non si dice” (“Meno male che ci sono le intercettazioni”: ve lo dicevo che questo libro sembra essere stato scritto proprio mentre sto recensendolo io, cioè adesso; e Dio solo sa come andrà a finire per l’Unto & sodali).

Da comprare, quindi, anche perché, come riportano le note redazionali in quarta di copertina, “il quadro che ne esce è realistico fino alla brutalità. La giustizia italiana non funziona perché programmata per non funzionare. Non è vero che i poteri forti vogliono una magistratura efficiente: la preferiscono inefficiente, lenta e politicizzata. Basta leggere queste cronache di INGIUSTIZIA quotidiana. Assassini, ladri, bancarottieri, mafiosi: più la fanno grossa, meglio è. Ammazzi la moglie? Con 5 anni te la cavi. Rubi miliardi? Prescrizione assicurata (e pure ricusazione sicura, vedi Mills & dintorni, n.d.r.). La legge e i suoi cavilli sono dalla tua. Intanto in prigione ci vanno gli altri (l’80% tossicodipendenti e immigrati). La lottizzazione corporativa certo non aiuta. Parola di magistrato. Alla fine il risultato è che il 95% dei delitti rimane impunito. Allora non è più una questione di giustizia, qui è in gioco la democrazia”. Alla prossima.

 

Nuccio Mula

 

 

 

 






 

 

 

 

 

Un magistrale saggio di Oliviero Beha con la prefazione di Beppe Grillo pubblicato da “Chiarelettere”

 

 “ITALIOPOLI”: VADEMECUM D’INFORMAZIONE E… DI RESISTENZA

 

Un Paese che affonda sotto i colpi di una classe dirigente sempre più prodiga di cattivi esempi, in un deserto di valori. Un ceto politico affannosamente complementare nella finzione tra destra e sinistra (“Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?”: ricordate l’ultimo, vecchio, illuminante Gaber, irrimediabilmente deluso dal politicume? e come dargli torto?). L’Italia mafiosa di oggi, ben oltre la mafia tradizionale negli interessi e nei comportamenti, tant’è che “forse oggi in Italia siamo giunti agli estremi: forse queste innumerevoli mafie stanno per saldarsi tra loro come in un gioco di puzzle, così da non lasciare nemmeno uno spazio dove vivere e respirare”, ha scritto Pietro Citati su “Repubblica”: ed è un capolavoro di sintesi e di deuteroscopia).

Un potere barricato in un Residence (mi sovviene il “Todo modo” d’uno Sciascia più amaro che mai, poiché denudante e profetico al tempo), divenuto fortino multimediale privo di cultura, in cui la realtà viene sostituita dalla sua rappresentazione televisiva (poiché solo quel che viene filtrato dalla tv è abilitato ad assumere denotazione e connotazioni del reale, a fronte, ad esempio, di quella “scomparsa dei fatti” al di fuori dal video che, alle notizie volutamente insabbiate nei vari centri di quarantena dinanzi ai cancelli del telepotere (di destra, di sinistra, di centro: tutti uguali, tutti Guantanamo in miniatura, tutti a difendere la casta in policromo ed acromatico esercizio di mutua assistenza “perinde ac cadaver”), riserva inevitabili cortine di silenzi e muri di gomma finché non sia il video stesso a riesumare, volente o no, essenze ed evidenze, anche imbarazzanti, anche sconcertanti, anche gravissime: un esempio per tutti, il caso di Marco Travaglio ed, in specie, le sue dichiarazioni su Schifani, documentate e pubblicate già molto tempo prima in uno dei suoi numerosi libri-denuncia (questo è giornalismo: altro che schiene curve e vassallaggi di genuflessioni), ma che fanno notizia ed esplodono sui media solo dopo che, in tv, l’Autore sintetizza “ex ore” e per pochi minuti le stesse frasi, inequivocabili e lapidarie porzioni di denuncia già inserite a stampa,  scritte e leggibili a chiare lettere nel contesto d’un “j’accuse” sepolto,assieme a tutti gli altri libri di Travaglio (tanto per limitarci a lui) nelle varie policrome / acromatiche Guantanamo “extra tele moenia” di cui sopra, per cui ci si accorge che il re, o chi per lui, è nudo solo quando è la tv a fare un passo falso, consentendo incautamente a qualcuno d’annunciare tale sua nudità che diviene reale e fa notizia soltanto “dal video”.

Questo ed altro è “Italiopoli” (mai titolo fu così esaustivo nel plasmare uno schifo totale), corposo resoconto di Oliviero Beha (Chiarelettere editrice, Milano, aprile 2007, euro 13, 60) sulla palude peninsulare dell’oggi, nonché provvidenziale manuale d’opposizione: quella vera, però, non quella dei vecchi e nuovi inciuci, dei vecchi e nuovi ribaltoni, dei nuovissimi “volemose bene”, policromi e acromatici, escogitati al “top” del neosaltimbanchismo “bipartisan” per adeguare l’arroganza del potere conquistato e la fregola del potere perduto a questa Terza Repubblica in cui, per la serie “smettiamola di farci la guerra e vediamo di accordarci riservatamente per spartirci il potere e fottere congiuntamente il popolo italiano, tanto le minoranze degli “i” come idealisti-ideologizzati-illusi-irriducibili-infrangicoglioni, ormai estromessi da tutte le Aule, contano solo come le loro liti e le loro logorree, cioè meno di zero”, non si sa più cosa sia e se ancora esista la “destra” e la “sinistra”; e ciò sempre che gliene freghi una cippa di moscerino (ma non gliene frega nemmeno questa microprotuberanza) a tutti i policromi / acromatici della Ditta Palazzi Congiunti 2008.

“Italiopoli”, allora, diviene un viaggio della mente e del cuore per denunciare una società in pezzi e cogliere i segnali di “nuove resistenze” nella stagione peggiore degli ultimi cinquant’anni, così come sottolineato nelle note di copertina ma, ancor meglio, nella provocatoria prefazione di un Beppe Grillo come sempre acuto e durissimo anche nell’intitolarla, icasticamente, “Un paese col buco”, poiché “L’Italia è una nazione con il buco dentro. Un vuoto che accompagna l’italiano dalla culla alla bara. Non se ne accorge più. E sprofonda, sprofonda. Quando va all’estero non trova inceneritori, traffico, sporcizia, maleducazione, burocrazia, pregiudicati in Parlamento, impunità, tariffe dei servizi pubblici da strozzini…E questo lo fa stare meglio. Cambiato. Ma al rientro gli bastano cinque minuti per adeguarsi e diventare il solito italiano di merda. Si può dire merda? Non è vilipendio della nazionalità, ma una questione di sopravvivenza. Se l’italiano onesto, soprattutto quello onesto, non fa come gli altri è tagliato fuori. E se protesta può finire male, denunciato, minacciato, querelato, in galera. Qualche volta sparato o gettato da un cavalcavia…L’Italia è sfiancata, rabbiosa. Il Parlamento è più squalificato di Scampia. Le nuove generazioni la pensione non l’avranno. E neppure il posto di lavoro…Che meraviglioso paese… Forse siamo dentro a un sogno e ci risveglieremo in Argentina. O forse sono le rimesse mafiose a tenere in piedi il paese. Le rimesse delle Mafie che hanno attenuato la secessione di fatto in Sicilia, in Calabria, in Campania sono la nostra ultima risorsa. Se questo è vero bisogna incoraggiare la criminalità organizzata. Tagliare i fondi ai tribunali, alla Giustizia. Nominare alla Commissione Antimafia dei pregiudicati…  Il copione è sempre lo stesso e gli italiani anche”.

Si potrà dire quel che si vuole su Grillo, tanto sappiamo bene che, nell’Italia dell’Italiopoli (ma anche in quella di prima, ammesso che sia esistita un’Italia senza Italiopoli; ed in proposito abbiamo seri dubbi, confermati dagli storici ancor prima dell’unità nazionale e dagli antropologi pressoché “ab immemorabili”), la croce viene sempre buttata addosso al qualcuno di turno sia se non parla o se parla, sia se non fa oppure fa;

ma come non dargli ragione, e proprio da vendere, almeno sulla maggior parte delle cose che dice e che fa?

In ogni caso, Grillo non è uno che si smercia al migliore offerente; ed anche se Oliviero Beha, l’autore di “Italiopoli”, fosse il suo migliore amico, il Beppe nazionale (ma ormai noto in tutto il mondo) non avrebbe mai e poi mai firmato questa prefazione (“Amicus Plato, sed magis amica veritas”) se non fosse stato intimamente convinto, ed “in toto”, della qualità e dello spessore di questo saggio, il cui valore, peraltro, si commenta da solo già andando a scorrere il sommario e riportandone, tanto per dare un’idea a chi ci legge, solo alcuni capitoli: da “Lo sciopero delle notizie: Sapere tutto ma non sapere di saperlo” a “Da Nanni Moretti alla Ferilli: La doppia morale della sinistra”; da “Alla ricerca di una bussola: Tra i due Poli un derby soltanto di parole” a “La verità, vi prego, sulla mafia: Sciascia, lo Stato polverizzato, l’Italia mafiosizzata”; da “L’apparenza è tutto: Se Pasolini ha ragione…e Moggi pure” a “Dalla culla alla bara: Tutta una vita ostaggi di ‘questa’ politica”; da “Quanto ci costano le ‘porcate’: Stiamo mantenendo un’oligarchia raffinatissima” (da non perdere, in tema, anche l’Appendice “Parole e numeri”, per restare a bocca aperta e poi tapparsela onde cercare di non vomitare) a “Le nuove resistenze: Un altro modo di fare politica è deve essere) possibile”. E poi tanto e quant’altro, sempre nell’ambito di un’Italiopoli dai mille tentacoli di Piovra che viene sezionata ed analizzata, con intelligenza ed, ovviamente, con grande mestiere, da Oliviero Beha.

Il quale, paradossalmente, pur non avendo bisogno di presentazioni per quantità e qualità di valenze creative  nell’ambito del giornalismo stampato e radiotelevisivo (“Radio Zorro”, “Video Zorro”, “Radioacolori”, “Va’ pensiero” ed altro – tra l’altro, è stato il giornalista che, per primo, ha denunciato pubblicamente il marcio nel mondo del calcio: e non è roba da poco), della saggistica politica e di costume, della letteratura (ha firmato romanzi, racconti, testi teatrali e poetici) e dell’impegno accademico (plurilaureato, dal 2001 è Docente universitario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Capitale, a “La Sapienza”), di fatto, dal 2004, in Rai e fuori, sopporta (ma con esemplare, altissima dignità), come leggiamo nella scheda del volume, “un lungo periodo di esclusione e di mobbing, sia in tv che in radio, favorito da qualunque versante politico con il concorso del mondo dell’informazione cui Beha in trent’anni non ha risparmiato dure critiche” (ed anche una certa “casta” dell’informazione fa parte, a pieno titolo, ma, è ovvio, sotto silenzio, di “Italiopoli”).

Per questo ed altro, Oliviero Beha è, quindi, come sottolinea lui stesso, con quella sua inimitabile ironia che tanto rimpiangiamo, magistralmente duellata fra preliminari virtuosismi di fioretto ed impietoso sciabolare finale di affondi “forse il più noto clandestino d’Italia”,sempre definito “scomodo”con una sorta di “epigrafe da designer, come fosse una sedia”: sulla quale, però, ed anche nel caso di “Italiopoli” (dovremmo leggerlo tutti, e specialmente per usarlo come tonico di resistenza contro ogni tentazione di resa) nessun potente ha avuto ed avrebbe l’audacia e l’imprudenza d’accomodarsi, consapevole di rischiarvi sia la fama che il culo.

 

Nuccio Mula





"Sparlamento": figlio prediletto

di mamma "Italiopoli"


 

Questo libro è una radiografia della nostra classe politica, osservata giorno dopo giorno da un giornalista che lavora nel Palazzo. E’ il racconto del backstage di Camera e Senato, sorprendente e avvilente allo stesso tempo, documento del degrado in cui è precipitata la democrazia rappresentativa in Italia. Una galleria di fatti e fenomeni, spesso sconosciuti, sfuggiti in modo più o meno complice alle cronache politiche. Piccolezze, misere ambizioni che risultano determinanti negli equilibri di potere, casi di arrivismo personale e perfino speculativo. E le testimonianze, le decine di ‘confessioni’ – verrebbe voglia di dire – dei diretti interessati, dei protagonisti, dei ‘famigli’ e dei trasformisti, di chi è a caccia di affari e di chi utilizza la fede per il potere, sono destinate a lasciare di stucco. E’ quasi la sceneggiatura di una politica che si fa show. Ma è uno spettacolo di quart’ordine. E non è affatto un bel vedere”.

Così Dario Fo e Franca Rame, a concludere – con amarissimo e spietato realismo – la prefazione ad un libro (“Sparlamento”, Chiarelettere Editrice, Milano, gennaio 2008, Euro 12, 60) che stupisce e sconcerta, autoabilitandosi ad un’infinita serie di riletture delle sue 215 pagine che, anche aperte a caso (poiché ogni foglio ha eloquenza propria e specifica di denuncia, ancorché sottratto “sic et simpliciter” all’ordine del sommario e del testo) dimostrano come sia veramente difficile, se non impossibile, dinanzi a questo libro, portare avanti una lettura “normale”, foglio dopo foglio, e sottrarsi, così, alla tentazione di attingere immediatamente a quanti più fatti & fattacci che vengono schiaffati in faccia al lettore con puntuale inevitabilità, donandogli ogni volta, anche “a saltare”, altrettanti spunti di riflessione e d’indignazione nel segno di quell’ “incredibile ma vero” che, nella dimensione politica italiota, da sempre, purtroppo, è credibile, veritiera, costante, schifosa realtà. 

Figli, fratelli, mogli, ex mogli, intere famiglie al seguito. E molti soldi, troppi soldi che girano (leggete e non crederete ai vostri occhi: ma, ripetiamo, tutto ciò che riporta Lopapa è “incredibile ma vero”). Prima del crollo, dentro il Palazzo (termine che, nell’occasione, riunisce Montecitorio e Palazzo Madama) si fa festa. Non senza insulti, dispetti e aggressioni, precisano le note in quarta di copertina: una dimensione allucinante, a volte oltre i confini dell’assurdo, che sicuramente andrà a perpetuarsi nel tempo, così come s’è infinite volte clonata per risorgere più forte ed inattaccabile, sorta di “Araba fenice” dello sperpero, dell’interesse privato, della corruzione, dell’arroganza, della presunzione d’onnipotenza legata ad un tesserino da parlamentare rivelantesi “password” di privilegi in crescita esponenziale piuttosto che contrassegno identificativo di uno “status” di rappresentante d’un elettorato e, quindi, d’una fetta, più o meno consistente, di popolo elettore ridotto a popolo bue, ovverosia chiamato, più che a delegare compiti, oneri e responsabilità, a sopportare / supportare poteri, prebende e vizi fuori dall’ordinaria esistenza d’un Paese “normale”.

Leggere come impiegano il tempo molti dei nostri parlamentari potrà anche far ridere (o vomitare, a seconda dei casi); ma fa anche rabbia, e tanta, vedere come trionfi il trasformismo, come continui ad imperare la massoneria, come l’arroganza “laica” e quella “religiosa” proseguano a duettare in quel pirandelliano “gioco delle parti” in cui le maschere del potere non muoiono mai, ed in cui, ripetiamo, tutto è “incredibile ma vero”, tragicamente vero: “così è, se vi pare” (ed anche se non vi pare:tanto,fra canovacci e ribaltoni,riverniciature ed oscuramenti, lo “spettacolo” si replica sempre).

Carmelo Lopapa, autore di questo viaggio in uno “Sparlamento” sovraffollato da teofurbi, affaristi, trasformisti, massoni & famigli, è un rinomato cronista parlamentare di “Repubblica”, degnissimo erede di quella denudazione di Palazzi & dintorni che ha dato al giornalismo italiano firme illustri, Guido Quaranta fra tutti; ed ogni giorno è a Montecitorio ed a Palazzo Madama per raccontare la politica italiana, dinanzi ai palcoscenici ma, soprattutto, dietro le quinte. Nel corso degli anni ha raccolto episodi, curiosità e testimonianze che rappresentano un quadro fedele della Seconda Repubblica (ma siamo più che sicuri che anche la Terza Repubblica proseguirà canovacci e repliche del “così è, se vi pare” già citato). “Sparlamento” è il suo primo libro, scritto con magistrale chiarezza e voluta asetticità di fatti separati dalle opinioni (ricordate il vecchio “Panorama”, quello di Lamberto Sechi?), quantunque lo sdegno, di fatto, stenti a non emergere non solo in ogni parola, frase, in ogni pagina, ma anche e persino fra le pause e gli spazi bianchi fra un fattaccio ed un altro.

Del resto, lo premette lo stesso Autore: “Questo è un viaggio. Non sui numeri (e i costi) di una crisi. Quelli, in fondo, sono gli effetti di un degrado che ha cause e radici più profonde. E’ un viaggio che parte da un incontro singolare, in un’ala poco frequentata di Montecitorio, dove può dare appuntamento solo chi conosce bene quei corridoi e quelle stanze, chi frequenta da anni la Camera dei deputati. Davanti a me c’è un funzionario parlamentare (…) Ha un quadernone verde ad anelli da consegnare. Un manoscritto di poche centinaia di pagine vergate con grafia fitta, piccola ed elegante. Una sorta di agenda zeppa di appunti. L’ha scritta, mi spiega, giorno dopo giorno. Vi è contenuta la storia, la più recente storia, quantomeno la ‘sua’ personalissima storia del declino che sta portando al tracollo dello Sparlamento. Inizio a sfogliarlo solo la sera e, pagina dopo pagina, vedo scorrere d’improvviso un film, una sequenza di immagini, voci e protagonisti della vita da basso impero del Parlamento. Un documento che non può restare chiuso in un cassetto. Anche perché a un’attenta verifica risulta che tra le decine di episodi, dichiarazioni, provvedimenti riportati non ce n’è uno falso o impreciso. Tutto perfettamente rispondente a quanto avvenuto, tutto documentato: anche la più piccola notizia cita l’articolo del giornale e il suo autore o il lancio di un’agenzia di stampa che l’ha riportata. Si aprono così le porte del più bizzarro e fantasioso dei condomini. Luogo supremo e solenne visto da fuori. Dentro accadono cose come queste”.

Il sommario, infine, per la cronaca. E per restare in bilico fra sdegno e stupore in attesa di leggerlo, questo libro prezioso, che forse, sfogliato di sera, ci toglierà qualche ora di sonno (ma come rilassarci dinanzi ad una simile congerie di furberie e di sconcezze?) ma ci farà un’iniezione di dignità con la quale,finalmente,poter fischiare e sputtanare tutti i Palazzi e i teatranti del politicume.

L’agenda / La politica alla deriva nelle memorie di un funzionario parlamentare; Il condominio / Il Parlamento degli affari e delle risse, delle droghe, dei festini e delle starlette; Tutto in famiglia / La politica delle mogli, dei figli e dei parenti; Teodem, teocon e teofurbi / La fede come pretesto e i monsignori in Parlamento; Fratelli di loggia e di Camere / Il ritorno della massoneria. Il racconto dei Gran maestri e le testimonianze dei parlamentari; Trasformismi / Quando nel cambio si guadagna. Le crisi di coscienza e i tradimenti di partito; La fantasia al potere /Bunjee jumping, Festival del maccherone e cure termali. Le priorità in Parlamento.

In ultima analisi, uno “Sparlamento” figlio prediletto di mamma “Italiopoli”: ma su quest’ultimo argomento (che è anche il titolo di un importante libro di Oliviero Beha, sempre edito da “Chiarelettere”) torneremo ad occuparci nella prossima puntata di questa nostra “scomoda” rubrica.

Nuccio Mula

 

 

 
Uno straordinario “libro – denuncia” di Vania Lucia Gaito
 sul fenomeno della pedofilia clericale

 

 

Il “Viaggio nel silenzio” sorprende e sconvolge: 
poiché “Di questo non si parla”

 

E “Chiarelettere Editrice”, che ha pubblicato l’inchiesta, apre anche un “blog” sul suo sito

 

 

Di questo non si parla” è il titolo di un semisconosciuto film del 1993 (tratto da un racconto di Julio Llinas), che conservo gelosamente in un vhs taroccato, e che, ogni tanto, m’accade di riprendere e rivedere con quell’attenzione di respiri trattenuti che si deve ad un’opera “cult” (ancorché ingiustamente bollata come prestazione monocorde da una rassegna critica, a mio parere, piuttosto frettolosa e superficiale) nella quale Marcello Mastroianni giganteggia per intensità di semitoni e poesia di delicatezza interpretativa.

In una cittadina argentina degli anni '30 un maturo, facoltoso scapolo impenitente (Mastroianni, appunto) è colto da passione folle per una ragazzina nana, colta e intelligente, figlia di una vedova di mezz'età, e la sposa; ma un circo gliela porta via, ed è in questo distacco che si snoda e si consuma un epilogo di tragedia.

Nel film, la vedova rifiuta di accettare la deformità della figlia; e lo fa a tutti i costi, sfidando qualsivoglia evidenza: la sua creatura non è deforme, non è nana, non è come lei è, e come tutti quanti la vedono e non possono non vederla che in tal modo, ergo in questa sua tormentata fisicità. Ma, appunto, “di questo non si parla”: parola d’ordine a celare e negare, silente intesa, presupposto ed imperativo di quieta convivenza col resto di tutta la piccola comunità di provincia dove si svolge la storia; decostruzione implacabile, rimozione decisa, totale d’un problema incarnato in una persona e di una persona incorporata in un problema: in ultima analisi, “di questo non si parla”,poiché “questo” (il problema, il soggetto),semplicemente non c’è, non esiste.

Tutto qui: ma si può risolvere un handicap, una situazione imbarazzante, una vicenda di emarginazione, una storia di violenza, e quant’altro in tema di precarietà e contraddizioni del quotidiano, con la logica ributtante e perversa del “di questo non si parla” poiché terzi colpevoli o conniventi hanno deciso che “questo”, semplicemente, non esiste, cucendo occhi, orecchie, bocche, menti, coscienze affinché non vedano, non sentano, non parlino, non ricordino, non reagiscano, affinché la prevalenza del tacere e del negare trionfi?  

 La verità vi farà liberi”, ammonì Cristo (Giovanni, 8, 32): ma quale rapporto c’è con questa frase, che è Parola di Dio, e la continua spirale di menzogne e di coperture con cui molti e troppi esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, dai contesti locali ai potentati di vertice, hanno deciso, in tema di pedofilia sistematicamente perpetrata e radicata nel tempo da altrettanti molti e troppi loro indegni “confratelli” o pseudotali, che “di questo non si parla” poiché “questo” (il problema, il colpevole, la vittima) semplicemente non esiste e, quindi, si deve altrettanto semplicemente negare, escludere, soffocare, depistare, azzerare?

Benedetto XVI, nel corso del suo recente viaggio in Usa, ha chiesto nuovamente perdono alle vittime della pedofilia nell’ambito della Chiesa Cattolica, denunciando pubblicamente, e con estrema durezza, l’allargarsi a macchia d’olio, in tutto il mondo, di simili nefandezze, moltiplicatesi in crescita esponenziale nei resoconti mediatici da quando prima una, poi, dieci, poi migliaia di crepe hanno incrinato ed abbattuto – dalla parte delle vittime, ovviamente – quel muro di silenzio, di negazione, d’omertà e di mendacio che, dall’altra parte (quella dei colpevoli, dei conniventi, degli omertosi, è altrettanto ovvio) si riteneva ormai a prova di tutto.

Non esiste, è vero, e lo scriviamo sinceramente, da laici ma anche da cattolici senza paraocchi e preconcetti laicisti ed anticlericali “tout court”, motivo alcuno per dubitare della personale, amareggiata, indignata,  sconvolta sincerità di Joseph Ratzinger,Pontefice rigidissimo custode dell’ortodossia ma anche celebre uomo di cultura, d’esperienza e di saggezza, e quindi sicuramente schiantato da tanto e tale “tsunami” di liquami (pesano, eccome, quelle sue parole d’inaudita e non casuale durezza, scritte / dette da Ratzinger Cardinale nella “Via Crucis” capitolina del 2005, mentre Papa Woityla, ripreso nel suo studio ad abbracciare il Crocifisso,traguardava le Stazioni del suo atroce percorso d’agonia e di Passione:“Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c'è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute! Tutto ciò è presente nella sua passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore").

Ma se è vero (come senz’altro lo è) che il perdono, laicamente e soprattutto cristianamente, è tappa naturale ed obbligata d’un percorso d’autocritica, di contrizione e di riconciliazione (purché sincero, è ovvio), appare altrettanto ovvia e doverosa la somministrazione d’una pena adeguata, soprattutto a fronte dell’indescrivibile empietà di tutta una serie di eventi e comportamenti criminali che gridano giustizia di fronte a Dio ed a qualsiasi comunità degli uomini; reati le cui aggravanti vanno ad accumularsi all’infinito, nella misura in cui all’atto delinquenziale, già di suo indegno, s’è sistematicamente associata e continua ad avvinghiarsi anche un’ammorbante cortina di connivenze intessuta di potere e ricatto, laddove alla vittima, pena tutta una serie di ritorsioni e vendette, s’è imposto e si prosegue ad ordinare il silenzio (come accade nei peggiori episodi di criminalità individuale ed organizzata), suggellando così, anche in questi casi, il triste binomio fra il danno e la beffa: e ciò con un reiterarsi di scaturigini perverse e sempre uguali, laddove il silenzio “da costrizione” delle vittime s’unisce, giocoforza, al silenzio “da rimozione” degli esecutori e dei loro protettori depistanti e negazionisti, adusi all’insabbiamento come difesa ad oltranza della casta e scorciatoia privilegiata contro anche un minimo danno d’immagine. Tacere, mentire, negare, allora: “di questo non si parla”, non esiste.

In altre parole: a che serve ricoprire le vittime di comprensione tardiva e di risarcimenti da ripiego quando nessun castigo è stato comminato ad esecutori ed insabbiatori, quando pressoché nessuno di questi, pur dopo quel perdono cristianamente spettantegli,  è stato spogliato, e con disonore, dalla tonaca o dalla porpora?

A che serve predicare bene (“la verità vi farà liberi” e razzolare male (“di questo non si parla”) visto che, a riferire un episodio notorio (la tipologia specifica ne contiene migliaia di cloni), un pedofilo “don” di turno, prima occultato fra private e sodali nebbie di protezione (rivelatesi, poi, all’esplodere del fattaccio, detonatori di pubbliche e balbettanti figuracce) ma poi inchiodato dinanzi alle sue responsabilità anche da autoinvocati patteggiamenti in sede di giustizia penale “laica”, è stato, e lo è rimasto anche dopo la suddetta deflagrazione mediatica, protagonista di un ecclesiastico “amoveatur” rivelatosi, ai fatti, un vero e proprio inqualificabile “promoveatur”? A che serve, in buona sostanza, togliere un pedofilo dai bambini di una parrocchia e mandarlo in mezzo ai bambini di un’altra, e pure più importante della prima, quindi facendogli fare persino carriera tonacale, a maggior gloria della Chiesa e della sua pubblica immagine (“tabù” dalla più piccola Diocesi fino al Cupolone del Vaticano) invece di cacciarlo via, senza manovre e giochetti, per acclarata e riconosciuta indegnità di portare quella tonaca, senza consentirgli più di lordare altrove la Croce di Cristo?

A che serve, cioè, e malgrado ogni buona e sincerissima intenzione, chiedere perdono alle vittime e ricoprirle di pentimenti e risarcimenti conto terzi quando queste stesse vittime (che sicuramente, in spirito di cristianità, troveranno la forza ed il coraggio di perdonare, ma non potranno mai e poi mai dimenticare traumi così gravi da spalmarsi sull’intero arco dell’esistenza, su sogni imbrattati e distrutti, su affetti personali e familiari squarciati e mai cicatrizzabili) vedono ancora, e con occhi increduli e sbigottiti, i propri carnefici ed i loro ipocriti e mendaci custodi del negazionismo tranquillamente in tonaca o in porpora, e persino seduti accanto a quel Pontefice che, invece, dovrebbe alzarsi e condannarli pubblicamente così come s’è pubblicamente alzato dinanzi a preti non pedofili ma semplicemente “scomodi” e li ha condannati prima dalla sede del Sant’Ufficio e poi dal soglio papale anche per un minimo impegno di Fede fuori dalle convenzioni o per un posizionarsi teologico appena fuori dalle convinzioni e dai tralicci delle interpretazioni e dei dogmi ufficiali?

Su questi ed a tanti altri interrogativi, drammatici ed inquietanti, cerca di fare il punto un volume coraggioso e straordinario, comprensibilmente duro, a volte non condivisibile ma, in ogni caso, di cui si sentiva la mancanza: “Viaggio nel silenzio” (e già dal titolo se ne comprende il senso e l’obiettivo), edito da “Chiarelettere” (www.chiarelettere.it: e sul sito la rinomata Casa Editrice milanese, come sempre, ha anche aperto e messo a disposizione di tutti i lettori un “blob” altrettanto deflagrante per chiarezza e drammaticità).

Ben 273 pagine fitte e crude, documentatissime su fatti, vittime, protagonisti ed insabbiatori: una vera e propria “bomba” contro la perversa logica del “di questo non si parla” e con tanto di nomi e cognomi, uscito, nel febbraio scorso, a firma di un’Autrice che sa il fatto suo, Vania Lucia Gaito, psicologa e giornalista, salernitana di origine, e che collabora dal 2006 con il “blog” di controinformazione “Bispensiero”, le cui  denunce e campagne di sensibilizzazione attraversano la blogosfera e i media, coniugando un’esperienza di psicologa della comunicazione con l’attività d’informazione “alternativa” dentro e fuori il web (per la cronaca – ed è una cronaca che ci riguarda – i suoi articoli e le campagne di sensibilizzazione alla legalità in ambito locale contribuiscono, da anni, anche a mettere in luce le contraddizioni e gli illeciti della pubblica amministrazione siciliana, gli sprechi di denaro pubblico e l’inefficienza della classe dirigente che trasversalmente interessano tutto l’apparato istituzionale isolano, dall’A.R.S. al Comune di Palermo).

Nel maggio 2007, Vania Lucia Gaito decide di ampliare i suoi orizzonti di ricerca e di denuncia, traducendo e sottotitolando in italiano l’ormai famoso (sconvolgente, incredibile ma vero, purtroppo, nei suoi contenuti) documentario della BBC “Sex Crimes and Vatican, pubblicandolo anche sul citato blog “Bispensiero”:  un “corto” visto da quasi cinque milioni di persone e che, per il clamore suscitato nel mondo, convince anche Michele Santoro a mandarlo su Rai Due, in prima serata, durante una puntata di “Annozero” (con un’inevitabile Apocalisse di polemiche e di pregiudiziali in malafede); e per la Gaito inizia, così, un’intensa, ed impietosa attività documentaria sulla pedofilia clericale, con articoli e inchieste che coinvolgono le alte sfere ecclesiali, portando alla luce fattualità e deposizioni puntualmente riprese dai mezzi di informazione (e di controinformazione): un esempio, il nebuloso passato dell’ex Don Gelmini e i suoi guai con la Giustizia.

Numerose, quindi, le testimonianze scaturite dai suoi articoli, sia da parte dell’opinione pubblica sensibile al problema (compresa, è da sottolineare, l’ampia comunità di quei cattolici, in Italia ed in tutto il mondo, che, su pedofilia clericale ed altre contraddizioni, più o meno scandalose ed eclatanti, non hanno mai temuto di confrontarsi, anche a muso duro, con le gerarchie locali e centrali, anche a costo d’essere sanzionati o ‘sconfessati’ da tanti, troppi muri di gomma e guanti d’acciaio) sia da parte di coloro che, avendo subìto abusi, adesso decidono di aprirsi e testimoniare la propria esperienza(“la verità vi farà liberi”: rammentate?).

Un impegno arduo e ardito al tempo, allora,e che l’Autrice stessa ribadisce sul citato “blog”: “Perché parlare proprio di pedofilia clericale? Perché tradurre e sottotitolare un documento scomodo come “Sex crimes and Vatican”? Perché attirarsi le critiche dei benpensanti? Perché, non contenta di ciò, scrivere addirittura un libro proprio su quest'argomento? E perché focalizzare l'attenzione su questo specifico ambito, quello che riguarda gli ecclesiastici e le loro devianze? Non sono problemi che indiscriminatamente colpiscono la società in generale? E perché non denunciare anche tutte quelle “altre categorie”altrettanto interessate dal fenomeno? E le altre confessioni religiose? Perché esporsi alle critiche di chi non vede l'ora di etichettarti in qualche modo, soprattutto come anticlericale o mangiapreti, con l'unico scopo di screditare il tuo lavoro a prescindere dalla verità dei contenuti? La pedofilia clericale non è un fenomeno accomunabile a nessun altro, diversa è la “genesi”, diversa è l’esperienza di vita da cui gli ecclesiastici provengono, diversa l’educazione che hanno ricevuto, diverso il ruolo sociale che ricoprono. Diverse sono anche le loro vittime. Le vittime che ho incontrato ed intervistato hanno rivelato tutte una comune esperienza: prima ancora di sentirsi abusati nel corpo, si sono sentite violate ed abusate nell’anima. La pedofilia nel clero, dunque, è un fenomeno a sé stante, che merita di essere trattato autonomamente, per la peculiarità e le caratteristiche, tutte proprie, che accomunano i casi esistenti. Di questi stessi casi, si parla ancora troppo poco, complice un’informazione asservita ai “poteri forti” che non vuole scontentare il potere più forte di tutti, quello della Chiesa istituzionale. Non ci sono sufficienti dati statistici, non è facile coinvolgere le vittime nel denunciare quanto subito. La vergogna, il senso di colpa, la perdita di autostima, rendono difficile metabolizzare l’esperienza drammatica di un abuso, soprattutto se subito in giovanissima età e soprattutto se subito ad opera di un ministro di Dio. E sebbene comunicare e raccontare sia l’unico modo per tentare di guarire le ferite, occorre molto tempo e molto aiuto per riuscire a recuperare quella parte di se stessi e della vita che l’abuso cancella. Questo spazio è un modo per continuare il viaggio che ho intrapreso, un modo per dare voce a quel silenzio, nella speranza che le Gerarchie Ecclesiastiche maturino un atteggiamento meno improntato alla difesa di se stesse e maggiormente volto alla tutela e alla difesa delle vittime”.

In ultima analisi, un libro da leggere immediatamente. Ricacciando indietro le lacrime, almeno finché se ne abbia la forza, e chiedendo a Dio il vigore di riflettere “a freddo” ed alla Chiesa la garanzia che, almeno da oggi in poi, consideri peccaminoso e blasfemo continuare ad accettare nel suo seno tutti quelli che, abusando del loro abito e del loro potere, infangando Cristo e convivendo nella perversa logica del “di questo non si parla”,abbiano ottenuto e continuino ad avere libertà di delinquere con la garanzia del perdono e del silenzio.

 

Nuccio Mula



 

 

 

 

 

 

 

 
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